Parlare del Giorno della Memoria è sempre doveroso, soprattutto per lo scopo di non permettere all’umanità di replicare la strage della Shoa, lo sterminio di ebrei, omosessuali, disabili e zingari che ha crudelmente macchiato la storia del Novecento. Nonostante i film e i documentari che ci vengono propinati nella giornata del 27 gennaio, in cui ricorre l’anniversario dell’entrata delle truppe sovietiche ad Auschwitz, non riusciamo a vedere quella storia vicina, salvo che in quelle 24 ore di indignazione che ne derivano. La storia acquisisce invece un altro sapore se pensiamo che un campo di concentramento sorgeva a una ventina di chilometri da noi.
Il campo di concentramento in funzione dal 1940 al ’43
“Una ricorrenza, il 27 gennaio, che Manfredonia è particolarmente sentita in quanto coinvolta suo malgrado nel perverso circuito dei campi di concentramento ordinati dal regime fascista- spiegano dal Comune garganico- Funzionò dal giugno 1940 al luglio 1943. Fortunatamente non era di quelli estremi tipo Auschwitz anche se la collocazione poteva far pensare al peggio: era stato sistemato infatti nel mattatoio da poco costruito ben fuori l’abitato che a quel tempo si fermava a Piazza Marconi. Era un reclusorio nel quale furono convogliati prevalentemente antifascisti, anarchici, sovversivi, persone genericamente pericolose per l’ordine pubblico ed anche ebrei di varia nazionalità tra serbocroati, sloveni, tedeschi e italiani provenienti dalla Liguria, Toscana, Lazio. Complessivamente 519 internati molti dei quali furono poi smistati al confino delle Isole Tremiti.
La scelta di Manfredonia e la struttura del campo di concentramento
La scelta di Manfredonia non fu casuale ma motivata dalla presenza del porto e della ferrovia e di due complessi ritenuti in grado di essere adattati a reclusori: il macello e Villa Rosa. Fu preferito il primo perché a due chilometri dall’abitato, di proprietà comunale, disponeva di circa una ventina di ambienti che vennero in tutta fretta riadattati per ospitare gli internati. Oltre ai locali della direzione e dell’amministrazione, il campo di concentramento, comprendeva undici cameroni, quattro mense con annesse cucine, uno spaccio, una infermeria, il lavatoio, la cappella, le docce e diversi servizi igienici. A cura degli internati erano stati impiantati alcuni orticelli per la coltivazione di ortaggi freschi e un campo di bocce. Una situazione “accogliente” se confrontata con i famigerati campi di sterminio disseminati in Germania e Polonia. Anche perché e forse soprattutto, la direzione del campo era affidata a personale italiano, al dirigente de locale Commissariato di Ps coadiuvato da civili del luogo. Nel maggio 1941 il reclusorio venne visitato dal Nunzio apostolico mons. Bergoncini Duca che rimase soddisfatto per le buone condizioni del campo e del trattamento dei detenuti.”
Di quella triste esperienza è rimasta qualche traccia. Per ricordarne la memoria e soprattutto per rammentare alle generazioni contemporanee e future che “Mai dimenticheremo” come afferma il manifesto pubblicato dal sindaco della città, Angelo Riccardi. “Un monito – ha affermato – per- ché tragedie simili non accadano mai più e un auspicio per la pace tra i popoli”.
Sul muro di quello che è stato il Campo di concentramento fascista di Manfredonia, è stata apposta una targa commemorativa nel corso di una cerimonia indetta nel Giorno della Memoria, con la benedizione dell’arcivescovo mons. Michele Castoro e la partecipazione del presidente della Provincia di Foggia Antonio Pepe e del Prefetto di Foggia Luisa Latella
Per approfondire Teresa Maria Rauzino, Slavi ed ebrei nel campo di concentramento di Manfredonia, Microstorie Mondi Medievali




